<== intro in 4/4, favaìni colle terzine dantesche!
Poi successe un fatterello antipatico che
minò la possibilità di continuare a frequentare l’ameno sito. Tana, mia sorella
più piccola, inarrestabile demonietto, si gettò tra i marosi increspati da un
moto ondoso neanche troppo mosso tuttavia evidentemente abbastanza agitato da
metterla in seria difficoltà, nonostante un otre rigonfio, un salvagente di mia
invenzione, al quale tentava disperatamente di aggrapparsi. Mio fratello
Francesco immediatamente si tuffò per aiutarla, ma anche lui ne rimase travolto
cosicché, smessa la vermiglia tunica, anch’io mi intesi di dare una mano e mi
fiondai in acqua per soccorrerli. Ahimè, un’onda mi travolse ed aggottai
indecorosamente tramutandomi a mia volta da soccorritore a bisognoso di
soccorso. Per farla breve, Lapa, la mia matrigna, mi seguì con uguale destino e
lo stesso fece mio padre: stavamo tutti per affogare in quella porzione di mar
Ligure, in poco meno di mezzo metro d’acqua, quando un bardo giovane, tale
Gioliano de’ Sartis, con l’acqua poco sopra ai polpacci, ci prese ad uno ad uno
per i capelli e ci coricò sul candido bagnasciuga a riprendere i sensi. I
bagnanti che avevano assistito alla scena ridacchiavano sotto i baffi, quelli
che ce l’avevano, mentre gli altri ridacchiavano e basta, allorché l’aitante
Gioliano andò a sedersi in disparte, coll’immancabile brillantino al lobo che
luccicava stimolato dai raggi del sole, impugnò la sua fedele ghironda ed intonò
un canto che faceva più o meno così:
Prepara il lampredotto, la ciambella e ir canotto
si parte domattina all’otto.
Parti domènia mattina,
la macchina piena,
costumi, ciabatte, scirlònghe
ombrellone,
paletta secchiello, le bocce,
ir pallone,
alle Spiagge Bianche
rivi ar Galafone
e parcheggi ar sole, di
primo mattino.
O fiorentino!
Pianti l’ombrello a
battigia, c’è già ir pigia-pigia
E un sai dove stendilo l’asciugamano.
T’incazzi di brutto con
moglie e figlioli
Ma quanto era meglio
venicci da soli;
ti butti nell’acqua ti
diacci un poìno.
O fiorentino-o, o
fiorentino!
Ma smetti d’agitàtti,
che stai per affogàtti
riva ir bagnino per sarvàtti.
T’agiti fra i cavalloni,
strepiti annaspi,
un sai cosa fare, stai
per affogare,
aggotti,
sputazzi e l’occhi strabuzzi
e quando ti
senti der tutto perduto:
arriva l’aiuto,
ti sarva ‘r bagnino.
O fiorentino!
Riverso sulla
rena, respiri a malapena,
d’acqua ce n’hai
la pancia piena!
Ti fa la
respirazione, la rianimazione,
di tutti i bagnanti
c’è la riunione,
ti pigliano in
giro, sghignazzano in tanti:
coll’acqua a’ ‘oglioni,
alla riva vicino,
sei guasi
affogato, ma sei fiorentino.
O fiorentino-o,
o fiorentino-o!
Glu-glu,
glu-glu!
O fiorentino…
Glu!
Mestamente raccattammo tutte le nostre carabattole e ci ritirammo oltre le tamerici tra il comune implacabile ludibrio. Da quel giorno, babbo preferì trascorrere le afose domeniche estive all’ombra dei platani di quella radura che, nel XIX secolo sarà destinata a diventare il Giardin de’ Boboli. Al limite, in occasione delle giornate in cui il caldo in centro a Firenze diventava insopportabile, ci allungavamo fino al lago di Bilancino, all’epoca poco più di uno stagno in pieno Mugello, ma non era la stessa cosa.
Dal canto mio, raggiunta l’indipendenza, mi accorsi che non avrei potuto rinunciare all’apporto di iodio di quattro passi sul litorale e, imparato a nuotare, per l’appunto proprio in quel del lago di Bilancino, scelsi altre mete per i salubri bagni di mare: con il summenzionato Gabbiano fu amore a prima vista, fin dalla prima… gozzata.
Ecco perché mi sono sempre sentito livornese di scoglio anche se Livorno, in realtà, all’epoca dei fatti era poco più di un castello e poche case che il Vescovo di Pisa, tal Eminentissimo Lamberto, aveva affidato alla gestione della famiglia degli Orlandi già dal 13 novembre del 1017. Oddio, ai miei tempi Livorno non è che se la passasse troppo bene, infatti, qualche decade più tardi la Contessa Matilde di Canossa, venutane in possesso in chissà quali circostanze e ribattezzatolo Castrum Liburni, pensò bene di cederlo, con atto di donazione, all’Opera del Duomo di Pisa che a sua volta lo restituì all’Arcivescovo della città. Ed è proprio ai destini della Repubblica Marinara di Pisa a cui Livorno fu indissolubilmente legato da lì in avanti. Gli eventi bellici di cui fu teatro il labronico litorale portarono alla ripetuta distruzione e conseguente ricostruzione del Castello che trovò pace solo sul finire del quattordicesimo secolo, quando ormai io ero bell’e morto stecchito da quel dì. Ma non divaghiamo oltre che la storia di Livorno ve la potrete far raccontare da chi ne sa più di me.
Dunque, da livornese, ancorché di adozione, vi racconterò com’è andata per davvero la storia della mia Comedia, – in seguito divenuta Divina Commedia per merito di Giovannino il Boccaccio che così la nomina nel suo trattatello a me dedicato, Dioglienerendamerito – il mio poema allegorico-didascalico che vanta milioni di vane imitazioni in tutto il mondo.
Detto questo, mi si lasci proseguire con
ordine.
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