2) ...ma facciamo un passo indietro

<== intro in 4/4, favaìni colle terzine dantesche!

    Mi presento: mi chiamo Durante Alagherii de Alagheriis, anche se tutti mi hanno sempre chiamato con l’ipocoristico Dante. Figlio di Alighiero e Bella degli Abati, sono nato a Firenze tra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265, sì! perché a distanza di più di settecentocinquant’anni non se lo ricorda nessuno e io, per l’appunto, ero appena arrivato. Anche se la storia narra di come io sia fiorentino di razza pura, in realtà, amante del mare come sono (o come ero, fate voi), tutti i fine settimana mi recavo alla Rotonda di Ardenza, mi svestivo affidando la mia tunica rossa e il cappello col paraorecchie alla scogliera che guarda verso sud, denominata Gabbiano, e mi facevo una bella nuotata insieme ai miei amici livornesi, estate e inverno, caldo o freddo, pioggia o gelo! Assolutamente mitica era, ed è tutt’oggi, per chi è ancora intenzionato a rispettare la tradizione, la nuotata di massa del primo dell’anno!

 A dirla tutta, però, quando ero ancora un ragazzotto, mio padre, che dopo la prematura scomparsa di mia madre si era risposato con Lapa di Chiarissimo Cialuffi (altra famiglia di quattrinai, abilissimi nell’arte di Calimàla, il commercio dei panni di lana), preferiva trascorrere le domeniche balneari sulla spiaggia di un paesino di pescatori, sito a una trentina di chilometri a sud del Castello di Livorno, denominato, all’epoca, Vada Volaterris: fuori dal villaggio esisteva, ed esiste tutt’oggi, una distesa immensa di sabbia candida universalmente conosciuta come Spiagge Bianche. Tutte le domeniche mattina, avanti il levar del sole, partivamo da Firenze e, dopo aver parcheggiato la vettura da viaggio nell’area del Galafone ed affidato la custodia dei cavalli al parcheggiatore, pagato in anticipo con due salatissimi soldi, ci recavamo in spiaggia dove ci sollazzavamo di bagni infiniti di sabbia e di mare con immensa felicità della famiglia tutta.

Poi successe un fatterello antipatico che minò la possibilità di continuare a frequentare l’ameno sito. Tana, mia sorella più piccola, inarrestabile demonietto, si gettò tra i marosi increspati da un moto ondoso neanche troppo mosso tuttavia evidentemente abbastanza agitato da metterla in seria difficoltà, nonostante un otre rigonfio, un salvagente di mia invenzione, al quale tentava disperatamente di aggrapparsi. Mio fratello Francesco immediatamente si tuffò per aiutarla, ma anche lui ne rimase travolto cosicché, smessa la vermiglia tunica, anch’io mi intesi di dare una mano e mi fiondai in acqua per soccorrerli. Ahimè, un’onda mi travolse ed aggottai indecorosamente tramutandomi a mia volta da soccorritore a bisognoso di soccorso. Per farla breve, Lapa, la mia matrigna, mi seguì con uguale destino e lo stesso fece mio padre: stavamo tutti per affogare in quella porzione di mar Ligure, in poco meno di mezzo metro d’acqua, quando un bardo giovane, tale Gioliano de’ Sartis, con l’acqua poco sopra ai polpacci, ci prese ad uno ad uno per i capelli e ci coricò sul candido bagnasciuga a riprendere i sensi. I bagnanti che avevano assistito alla scena ridacchiavano sotto i baffi, quelli che ce l’avevano, mentre gli altri ridacchiavano e basta, allorché l’aitante Gioliano andò a sedersi in disparte, coll’immancabile brillantino al lobo che luccicava stimolato dai raggi del sole, impugnò la sua fedele ghironda ed intonò un canto che faceva più o meno così:



Prepara il lampredotto, la ciambella e ir canotto

si parte domattina all’otto.

 

Parti domènia mattina, la macchina piena,

costumi, ciabatte, scirlònghe ombrellone,

paletta secchiello, le bocce, ir pallone,

alle Spiagge Bianche rivi ar Galafone

e parcheggi ar sole, di primo mattino.

O fiorentino!

 

Pianti l’ombrello a battigia, c’è già ir pigia-pigia

E un sai dove stendilo l’asciugamano.

T’incazzi di brutto con moglie e figlioli

Ma quanto era meglio venicci da soli;

ti butti nell’acqua ti diacci un poìno.

O fiorentino-o, o fiorentino!

 

Ma smetti d’agitàtti, che stai per affogàtti

riva ir bagnino per sarvàtti.

 

T’agiti fra i cavalloni, strepiti annaspi,

un sai cosa fare, stai per affogare,

aggotti, sputazzi e l’occhi strabuzzi

e quando ti senti der tutto perduto:

arriva l’aiuto, ti sarva ‘r bagnino.

O fiorentino!

 

Riverso sulla rena, respiri a malapena,

d’acqua ce n’hai la pancia piena!

 

Ti fa la respirazione, la rianimazione,

di tutti i bagnanti c’è la riunione,

ti pigliano in giro, sghignazzano in tanti:

coll’acqua a’ ‘oglioni, alla riva vicino,

sei guasi affogato, ma sei fiorentino.

O fiorentino-o, o fiorentino-o!

Glu-glu, glu-glu!

O fiorentino… Glu!

        Mestamente raccattammo tutte le nostre carabattole e ci ritirammo oltre le tamerici tra il comune implacabile ludibrio. Da quel giorno, babbo preferì trascorrere le afose domeniche estive all’ombra dei platani di quella radura che, nel XIX secolo sarà destinata a diventare il Giardin de’ Boboli. Al limite, in occasione delle giornate in cui il caldo in centro a Firenze diventava insopportabile, ci allungavamo fino al lago di Bilancino, all’epoca poco più di uno stagno in pieno Mugello, ma non era la stessa cosa.

Dal canto mio, raggiunta l’indipendenza, mi accorsi che non avrei potuto rinunciare all’apporto di iodio di quattro passi sul litorale e, imparato a nuotare, per l’appunto proprio in quel del lago di Bilancino, scelsi altre mete per i salubri bagni di mare: con il summenzionato Gabbiano fu amore a prima vista, fin dalla prima… gozzata.

Ecco perché mi sono sempre sentito livornese di scoglio anche se Livorno, in realtà, all’epoca dei fatti era poco più di un castello e poche case che il Vescovo di Pisa, tal Eminentissimo Lamberto, aveva affidato alla gestione della famiglia degli Orlandi già dal 13 novembre del 1017. Oddio, ai miei tempi Livorno non è che se la passasse troppo bene, infatti, qualche decade più tardi la Contessa Matilde di Canossa, venutane in possesso in chissà quali circostanze e ribattezzatolo Castrum Liburni, pensò bene di cederlo, con atto di donazione, all’Opera del Duomo di Pisa che a sua volta lo restituì all’Arcivescovo della città. Ed è proprio ai destini della Repubblica Marinara di Pisa a cui Livorno fu indissolubilmente legato da lì in avanti. Gli eventi bellici di cui fu teatro il labronico litorale portarono alla ripetuta distruzione e conseguente ricostruzione del Castello che trovò pace solo sul finire del quattordicesimo secolo, quando ormai io ero bell’e morto stecchito da quel dì. Ma non divaghiamo oltre che la storia di Livorno ve la potrete far raccontare da chi ne sa più di me.

Dunque, da livornese, ancorché di adozione, vi racconterò com’è andata per davvero la storia della  mia Comedia, – in seguito divenuta Divina Commedia per merito di Giovannino il Boccaccio che così la nomina nel suo trattatello a me dedicato, Dioglienerendamerito – il mio poema allegorico-didascalico che vanta milioni di vane imitazioni in tutto il mondo.

Detto questo, mi si lasci proseguire con ordine.

===> l'incontro con Beatrice

Nessun commento:

Posta un commento