6) Inferno

Inferno

        L’Inferno è la prima delle tre cantiche (ritonfa col numero tre): Inferno, Purgatorio, Paradiso, ognuna di trentatré canti (undici per tre), novantanove canti in tutto (trentatré per tre), più uno (tre diviso tre), che io pongo all’inizio della prima di esse e che considero una introduzione. Ogni canto è composto di terzine (ridagli!) dette,  per l’appunto terzine dantesche; in ogni terzina il primo verso è in rima con il terzo mentre il secondo è concatenato al primo della terzina successiva e così via; tutti endecasillabi sciolti. 
    Non penserete che sia stato facile organizzare tutto l’ambaradan attorno al numero tre, ma alla fine direi che ne è valsa la pena soprattutto tenendo conto che, magari, se moltiplicavo tutto per due o per quattro la Divina Commedia non la prendeva in considerazione nessuno. 
E qui comincia il mio Inferno, che è la cantica che amo di più. Diciamolo chiaro: delle tre cantiche, l’Inferno è senza ombra di dubbio, la più varia, articolata, misteriosa, intrigante, terrificante se non addirittura, lasciamelo dire, di-ver-ten-te, quindi, bando alle ciance… 
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
che la diritta via era smarrita.
    Girovaga di qui e bighellona di là mi imbattei in un animale che in vita mia non avevo mai visto ma che in seguito, chiedendo informazioni in giro, ho capito che si trattasse di una lonza.
    
Ma, chiederà il lettore, che animale è la lonza? La lonza era un animale sempre in calore che si accoppiava continuamente e con qualsiasi tipo di uomo o di animale si trovasse davanti… anche senza viagra. Insomma, quando s’incontrava una lonza, la migliore di tutte era camminare con le spalle (diciamo le spalle) lungo il muro. Potreste immaginarvela con le sembianze della Cicciolina dei tempi d’oro? Ecco, io sì!
    Ai giorni vostri, invece, se fosse vero quello che continua a raccontare di sé, potrebbe essere paragonata al Cavsenzacaval di villa Graziuoli, delle festicciole proibite e della nipotina perduta di Ambarabak.
    A proposito del Cav, mi sovviene un aneddoto di quando ancora era Presidente del Consiglio e mi va di condividerlo:
    Un giorno, prima di un summit col mondo dell’Islam e del Buddismo, il Cavsenzacaval portò in giro per le campagne dell’hinterland milanese il Primo Ministro del RajYa Sabha indiano, che si chiamava Akilesh Unstàdrent, e il primo Ministro del Türkiye Büyük Millet Meclisi, il Parlamanto Turco, che si chiamava Mahahah Kherishat .
    “Questa sera consentitemi di portarvi a cena in un bel posticino – aveva detto lui – dove fanno una tagliata gorgonzola e rucola che è la fine del mondo e una porchetta che devi ringraziare il Padreterno per aver creato i suini!”
    È evidente che al Senzacaval era sfuggito che manzi e maiali poco si accostano alle limitazioni nutrizionali imposte dalle confessioni religiose dei suoi occasionali compagni di merende, tuttavia loro evidentemente non comprendevano l’italiano, e si limitavano ad annuire lievemente con la testa accompagnando il gesto con risolini che facevano capire che era solo una cortesia per obbligo di ospitalità… così, tanto per accontentarlo.
    Gironzolando nel buio alla ricerca dell’agriturismo dove voleva portarli a cena, il Cav si accorse di avere smarrito la strada:
    “Ora andiamo di là! – Diceva il navigatore – No, meglio imboccare di qua. Allora forse è laggiù!” E così via.
    A mezzanotte, quando si trovarono a passare per la terza volta accanto al solito cipresso, il Ministro turco batté sulla spalla dell’occasionale autista e gli mostrò l’orologio come dire:
    Oh! Geç oldu!” – che vuol dire: “Oh! S’è fatta una certa!”
    “No, no, ma adesso lo trovo”. Insisteva lui, ma non trovò proprio nulla.
    Alle tre, anche l’altro ministro gli batté sulla spalla indicandogli un casolare nelle vicinanze e facendogli capire di fermarsi perché ormai, più che fame, cascavano dal sonno.
    Il Cav prese in mano la situazione e propose:
    “Consentitemi, cari colleghi, di chiedere ospitalità in quella fattoria dove troveremo un rifugio sicuro fino a domattina; col far del giorno, poi, mi sarà più facile orientarmi”. Come se fosse stata un’idea sua.
    Bussò alla porta: toc toc...
    “Chi è?” Chiese la voce assonnata del fattore, svegliato nel cuore della notte.
    “Sono Cavsenzacaval, il Presidente, mi consenta… sa, ci siamo persi! Ci ospiterebbe per questa notte?”
    “Volentieri, ma in casa ciò du’ posti e basta! – Rispose, aprendo l’uscio, l’affabile fattore, la cui parlata tradiva le chiare origini labroniche. – Uno di voi si dovrebbe accomodà a dormì nella stalla”.
    “Nessun problema, andrò io!” Si fece capire a gesti il Ministro indiano.
    Shubh Raatri!” Che si scrive: शुभ रात्रि e significa Buona notte!
    Dopo qualche minuto, però: toc toc...
    “Chi è?” Chiese nuovamente il fattore, mentre anche gli altri due si avvicinavano.
    Dall’idioma proveniente dal di là dell’uscio, capirono che si trattava del Primo Ministro indiano e il fattore aprì. Il Premier, facendo il gesto delle corna sulla testa, fece capire che nella stalla c’era una mucca e che lui non era degno di condividere un luogo in cui dorme un animale considerato sacro dalla propria religione.
    “Nessun problema, andrò io!” Fece capire il Premier turco, sempre a gesti.
    Iyi geceler!” Che anche quella volta significava “Buona notte”, ma in turco, e si congedò.
    Passarono tre minuti e: toc toc...
    “Chi è?” Chiese spazientito il fattore.
    Altri suoni incomprensibili facevano capire che anche il turco aveva cambiato idea. Aperto l’uscio il Premier ottomano spiegò, sempre a gesti (sembrava Fantozzi), che nella stalla c’era un maiale e la sua religione vieta di far dormire chiunque nello stesso ambiente con un animale tanto impuro.
    “E va bene, consentitemi… andrò io!” Si fece avanti il Cav.
    “Buna nòtt”. Quella volta in milanese schietto.
    Quando sembrava che tutti fossero sistemati per trascorrere quel poco di nottata che restava: toc toc...
    “Ora chi è?” Il fattore ormai non ce la faceva più.
    “Siamo muuu la Mucca e grunt il Maiale, nella stalla c’è il Cavsenzacaval e noi...”
 
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    Ma non usciamo dal seminato e ritorniamo agli incontri nella Selva Oscura.
    Scampata la lonza, un ruggito assordante mi fece sobbalzare: un Leone enorme dalla fluente criniera fulva sbucò da dietro il tronco di una quercia secolare e, a passi felpati, iniziò ad  avvicinarsi con atteggiamento minaccioso e con un’aria di indiscussa superiorità. Superbo? Chiederete voi. Sì! Superbo a bestia! Oggi potrei immaginarmelo in uno dei Mattei di cui ci tocca sopportare le gesta. Più superbioso di loro, qualunque dei due esso rappresenti!
    Si narra di una sua visita istituzionale ad una scuola elementare, poteva essere di Scandicci o di San Cristoforo sul Naviglio, il succo della storia non cambia, durante la quale un bambino gli voleva fare una domanda.
“Ciao, bel bambino, ma tu quanti anni è che ciai? – gli chiese.
“Nove?” Gli rispose prontamente il bimbo.
“Vergognati! – Lo apostrofò lui – Io, alla tua età, ce n’avevo già dieci!!!”
    O sennò quell’altra di quando era Vicepresidente del Consiglio, sì! Quando fece il Governo… uno dei due lo fece anche a zighe con il Nanoincravattato (bono, anche lui).
Insomma la compagna, una qualsiasi di uno qualsiasi dei Mattei che si sia preso in considerazione, un giorno si trovava al Supermercato a fare la spesa, come le brave massaie di tutto il mondo, allorché un tipetto arzillo di una certa età, con un cappellino di paglia in testa l’avvicinò e le chiese impertinente:
    “O… ma te ce l’hai la topa?”
    La donna, credendo di avere frainteso le parole di quell’ometto, continuò imperterrita a fare la spesa, ma si sa, il supermercato è piccolo e gli incontri è difficile evitarli, infatti, nella corsia del latte, l’omino s’avvicinò di bel nuovo reiterando la richiesta:
    “O… ma te ce l’hai la topa?”
    “Ma che dice?” Ribatté lei indispettita, più che scandalizzata, e si riallontanò.
    Ma alla corsia dei salumi l’omino era nuovamente in agguato.
    “Allora? Ce l’hai o no?”
    A quel punto lei sbottò:
    “Ma basta! Ma non si vergogna? Ma come si permette? E poi… ma che domanda è? Certo che ce l’ho! Come tutte le donne del mondo, ma perché me lo chiede?”
    “No! – Rispose lui malinconico – Vorrei capì perché, allora, ir tu Matteo (uno dei due, ma anche tutti e due, purtroppo!) ce lo mette sempre in c… tasca a noi!”
    E se ne andò.
 
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    Come se non fossero bastati Lonza e Leone, scampati i pericoli, un lugubre ululato recò inenarrabile offesa alle mie povere orecchie preannunciando la materializzazione di una terza bestia (e ridagli con il tre!): una Lupa, questa volta, il simbolo dell’avarizia. E qui mi dispiace per loro ma, da buon toscano, per di più livornese, anche se di adozione, non posso esimermi dal tirare in ballo i cugini lucchesi, anche perché altrimenti se la prenderebbero a male.
    Io conosco un tipo a Lucca al quale via-via faccio visita di notte, mentre dorme, ma senza fargli paura, siamo amici ormai; si chiama Sulpicio ed interpreta come meglio non si può lo spirito lucchese.
    In albergo gli ho sentito chiedere:
    “Scusi vell’omo, – rivolto al concierge – ma quanto ‘osta una camera per passà la nottata?”
    “Cento euro a notte!” Gli ha risposto cortesemente l’addetto al ricevimento.
    “Io lai! – ha imprecato lui – E  per mette la macchina in garage, vanto mi ‘osta?”
    “Nulla signore, ci mancherebbe!”
    “Ah, bene! Allora m’apra ir garage, per piacere, vado a dormì in macchina!”
 
    E proprio a Sulpicio ho dedicato questa cosetta dapprima poco considerata ma recentemente rivalutata dai critici di tutto il globo terracqueo (clic per cantarla con me):

P’andà da casa a lavorare
ir filobusse vai a inseguire.
“Soddisfazione è – te m’hai detto –
risparmià i sòrdi der biglietto!”
La carta da parati smonti
se sgomberi dar centro a’ monti;
Un ciai la foto quando mori
sotterrato a testa di fori.
 
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese mio ciai ‘n tasca le tagliole.
 
Se della Messa ciai passione
der Papa alla televisione
passa ‘r cestino dell’offerte
ti giri da quell’artra parte.
Sur tramme uno mascherato
“Le mani in arto” grida armato.
Fortuna ch’è un rapinatore,
credevi fosse ‘r controllore!
 
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese mio ciai ‘n tasca le tagliole.
 
M’hai detto: “Prendi quarche cosa!”
E io: “Quer che voi te, la stessa cosa!”
E la risposta tua siùra:
“Prendo un po’ d’aria sulle mura”.
Se coll’amici vai a trombare
preservativo vuoi usare
ma p’uni sta sotto le spese
uno ti fa per tutto ‘r mese.
 
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese mio ciai ‘n tasca le tagliole.

Prima della porta dell'inferno ==>

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