Inferno
L’Inferno è la prima delle tre cantiche
(ritonfa col numero tre): Inferno, Purgatorio, Paradiso, ognuna di trentatré
canti (undici per tre), novantanove canti in tutto (trentatré per tre), più uno
(tre diviso tre), che io pongo all’inizio della prima di esse e che considero
una introduzione. Ogni canto è composto di terzine (ridagli!) dette, per l’appunto terzine dantesche; in ogni
terzina il primo verso è in rima con il terzo mentre il secondo è concatenato
al primo della terzina successiva e così via; tutti endecasillabi sciolti.
Non penserete che sia stato facile
organizzare tutto l’ambaradan attorno al numero tre, ma alla fine direi che ne
è valsa la pena soprattutto tenendo conto che, magari, se moltiplicavo tutto
per due o per quattro la Divina Commedia non la prendeva in considerazione
nessuno.
E qui comincia il mio Inferno, che è la
cantica che amo di più. Diciamolo chiaro: delle
tre cantiche, l’Inferno è senza ombra di dubbio, la più varia, articolata,
misteriosa, intrigante, terrificante se non addirittura, lasciamelo dire,
di-ver-ten-te, quindi, bando alle ciance…
Nel mezzo del cammin di
nostra vita
mi ritrovai per una
selva oscura
che la diritta via era
smarrita.
Girovaga di qui e bighellona di là mi
imbattei in un animale che in vita mia non avevo mai visto ma che in seguito,
chiedendo informazioni in giro, ho capito che si trattasse di una lonza.
Ma, chiederà il lettore,
che animale è la lonza? La lonza era un animale sempre in calore che si
accoppiava continuamente e con qualsiasi tipo di uomo o di animale si trovasse
davanti… anche senza viagra. Insomma,
quando s’incontrava una lonza, la migliore di tutte era camminare con le spalle
(diciamo le spalle) lungo il muro. Potreste immaginarvela con le sembianze della
Cicciolina dei tempi d’oro? Ecco, io sì!
Ai giorni vostri, invece, se fosse vero
quello che continua a raccontare di sé, potrebbe essere paragonata al Cavsenzacaval di villa Graziuoli, delle
festicciole proibite e della nipotina perduta di Ambarabak.
A proposito del Cav, mi sovviene un
aneddoto di quando ancora era Presidente del Consiglio e mi va di condividerlo:
Un giorno, prima di un summit col mondo
dell’Islam e del Buddismo, il Cavsenzacaval
portò in giro per le campagne dell’hinterland milanese il Primo Ministro
del RajYa Sabha indiano, che si chiamava Akilesh Unstàdrent, e il primo
Ministro del Türkiye Büyük Millet Meclisi, il Parlamanto Turco,
che si chiamava Mahahah Kherishat .
“Questa sera consentitemi di portarvi a cena
in un bel posticino – aveva detto lui – dove fanno una tagliata gorgonzola e
rucola che è la fine del mondo e una porchetta che devi ringraziare il
Padreterno per aver creato i suini!”
È evidente che al Senzacaval era sfuggito
che manzi e maiali poco si accostano alle limitazioni nutrizionali imposte
dalle confessioni religiose dei suoi occasionali compagni di merende, tuttavia loro
evidentemente non comprendevano l’italiano, e si limitavano ad annuire
lievemente con la testa accompagnando il gesto con risolini che facevano capire
che era solo una cortesia per obbligo di ospitalità… così, tanto per accontentarlo.
Gironzolando nel buio alla ricerca dell’agriturismo
dove voleva portarli a cena, il Cav si accorse di avere smarrito la strada:
“Ora andiamo di là! – Diceva il navigatore
– No, meglio imboccare di qua. Allora forse è laggiù!” E così via.
A mezzanotte, quando si trovarono a passare
per la terza volta accanto al solito cipresso, il Ministro turco batté sulla
spalla dell’occasionale autista e gli mostrò l’orologio come dire:
“Oh! Geç oldu!” – che vuol dire: “Oh!
S’è fatta una certa!”
“No, no, ma adesso lo trovo”. Insisteva
lui, ma non trovò proprio nulla.
Alle tre, anche l’altro ministro gli batté
sulla spalla indicandogli un casolare nelle vicinanze e facendogli capire di
fermarsi perché ormai, più che fame, cascavano dal sonno.
Il Cav prese in mano la situazione e propose:
“Consentitemi, cari colleghi, di chiedere
ospitalità in quella fattoria dove troveremo un rifugio sicuro fino a
domattina; col far del giorno, poi, mi sarà più facile orientarmi”. Come se
fosse stata un’idea sua.
Bussò alla porta: toc toc...
“Chi è?” Chiese la voce assonnata del fattore,
svegliato nel cuore della notte.
“Sono Cavsenzacaval, il Presidente, mi consenta… sa, ci siamo persi! Ci
ospiterebbe per questa notte?”
“Volentieri, ma in casa ciò du’ posti e
basta! – Rispose, aprendo l’uscio, l’affabile fattore, la cui parlata tradiva
le chiare origini labroniche. – Uno di voi si dovrebbe accomodà a dormì nella
stalla”.
“Nessun
problema, andrò io!” Si fece capire a gesti il Ministro indiano.
“Shubh Raatri!” Che si scrive: शुभ रात्रि e
significa “Buona
notte!”
Dopo qualche minuto,
però: toc toc...
“Chi è?” Chiese nuovamente
il fattore, mentre anche gli altri due si avvicinavano.
Dall’idioma proveniente
dal di là dell’uscio, capirono che si trattava del Primo Ministro indiano e il
fattore aprì. Il Premier, facendo il gesto delle corna sulla testa, fece capire
che nella stalla c’era una mucca e che lui non era degno di condividere un
luogo in cui dorme un animale considerato sacro dalla propria religione.
“Nessun
problema, andrò io!” Fece capire il Premier turco, sempre a gesti.
“Iyi geceler!” Che anche quella volta significava
“Buona notte”, ma in turco, e si congedò.
Passarono tre minuti e: toc toc...
“Chi è?” Chiese spazientito il fattore.
Altri suoni incomprensibili facevano capire
che anche il turco aveva cambiato idea. Aperto l’uscio il Premier ottomano
spiegò, sempre a gesti (sembrava Fantozzi), che nella stalla c’era un maiale e
la sua religione vieta di far dormire chiunque nello stesso ambiente con un
animale tanto impuro.
“E va bene, consentitemi… andrò io!” Si fece
avanti il Cav.
“Buna nòtt”. Quella volta in milanese
schietto.
Quando sembrava che tutti fossero
sistemati per trascorrere quel poco di nottata che restava: toc toc...
“Ora chi è?” Il fattore ormai non ce la faceva
più.
“Siamo muuu
la Mucca e grunt il Maiale, nella
stalla c’è il Cavsenzacaval e noi...”
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Ma non usciamo dal seminato e ritorniamo agli incontri
nella Selva Oscura.
Scampata la lonza, un ruggito assordante
mi fece sobbalzare: un Leone enorme
dalla fluente criniera fulva sbucò da dietro il tronco di una quercia secolare
e, a passi felpati, iniziò ad
avvicinarsi con atteggiamento minaccioso e con un’aria di indiscussa
superiorità. Superbo? Chiederete voi. Sì! Superbo a bestia! Oggi potrei
immaginarmelo in uno dei Mattei di cui
ci tocca sopportare le gesta. Più superbioso di loro, qualunque dei due
esso rappresenti!
Si narra di una sua visita istituzionale ad
una scuola elementare, poteva essere di Scandicci o di San Cristoforo sul
Naviglio, il succo della storia non cambia, durante la quale un bambino gli
voleva fare una domanda.
“Ciao, bel bambino, ma tu quanti anni è
che ciai? – gli chiese.
“Nove?” Gli rispose prontamente il bimbo.
O sennò quell’altra di quando era Vicepresidente
del Consiglio, sì! Quando fece il Governo… uno dei due lo fece anche a zighe
con il Nanoincravattato (bono, anche lui).
Insomma la compagna, una qualsiasi di uno
qualsiasi dei Mattei che si sia preso in considerazione, un giorno si trovava al
Supermercato a fare la spesa, come le brave massaie di tutto il mondo, allorché
un tipetto arzillo di una certa età, con un cappellino di paglia in testa l’avvicinò
e le chiese impertinente:
“O… ma te ce l’hai la topa?”
La donna, credendo di avere frainteso le parole di quell’ometto,
continuò imperterrita a fare la spesa, ma si sa, il supermercato è piccolo e gli
incontri è difficile evitarli, infatti, nella corsia del latte, l’omino s’avvicinò
di bel nuovo reiterando la richiesta:
“O… ma te ce l’hai la topa?”
“Ma che dice?” Ribatté lei indispettita, più che
scandalizzata, e si riallontanò.
Ma alla corsia dei salumi l’omino era nuovamente in
agguato.
“Allora? Ce l’hai o no?”
A quel punto lei sbottò:
“Ma basta! Ma non si vergogna? Ma come si
permette? E poi… ma che domanda è? Certo che ce l’ho! Come tutte le donne del
mondo, ma perché me lo chiede?”
“No! – Rispose lui malinconico – Vorrei
capì perché, allora, ir tu Matteo (uno dei due, ma anche tutti e due,
purtroppo!) ce lo mette sempre in c… tasca a noi!”
E se ne andò.
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Come se non fossero bastati Lonza e Leone,
scampati i pericoli, un lugubre ululato recò inenarrabile offesa alle mie
povere orecchie preannunciando la materializzazione di una terza bestia (e
ridagli con il tre!): una Lupa,
questa volta, il simbolo dell’avarizia. E qui mi dispiace per loro ma, da buon
toscano, per di più livornese, anche se di adozione, non posso esimermi dal tirare
in ballo i cugini lucchesi, anche perché altrimenti se la prenderebbero a male.
Io conosco un
tipo a Lucca al quale via-via faccio visita di notte, mentre dorme, ma senza
fargli paura, siamo amici ormai; si chiama Sulpicio ed interpreta come meglio non si
può lo spirito lucchese.
In albergo gli ho sentito chiedere:
“Scusi vell’omo, – rivolto al concierge –
ma quanto ‘osta una camera per passà la nottata?”
“Cento euro a notte!” Gli ha risposto
cortesemente l’addetto al ricevimento.
“Io lai! – ha imprecato lui – E per mette la macchina in garage, vanto mi ‘osta?”
“Nulla signore, ci mancherebbe!”
“Ah, bene! Allora m’apra ir garage, per
piacere, vado a dormì in macchina!”
E proprio a Sulpicio ho dedicato questa
cosetta dapprima poco considerata ma recentemente rivalutata dai critici di
tutto il globo terracqueo (clic per cantarla con me):
P’andà da casa a lavorare
ir filobusse vai a inseguire.
“Soddisfazione è – te m’hai detto –
risparmià i sòrdi der biglietto!”
La carta da parati smonti
se sgomberi dar centro a’ monti;
Un ciai la foto quando mori
sotterrato a testa di fori.
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese mio ciai ‘n tasca le tagliole.
Se della Messa ciai passione
der Papa alla televisione
passa ‘r cestino dell’offerte
ti giri da quell’artra parte.
Sur tramme uno mascherato
“Le mani in arto” grida armato.
Fortuna ch’è un rapinatore,
credevi fosse ‘r controllore!
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese mio ciai ‘n tasca le tagliole.
M’hai detto: “Prendi quarche cosa!”
E io: “Quer che voi te, la stessa cosa!”
E la risposta tua siùra:
“Prendo un po’ d’aria sulle mura”.
Se coll’amici vai a trombare
preservativo vuoi usare
ma p’uni sta sotto le spese
uno ti fa per tutto ‘r mese.
Dai lucchesi vai
e a risparmià di certo imparerai
i vaini poi sotto ir mattone li rimpiatterai.
Lasciatelo di’ più d’una fionda te tirato siei,
parsimonioso più di te un si pole
lucchese
mio ciai ‘n tasca le tagliole.
Prima della porta dell'inferno ==>
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