3) l'incontro con Beatrice

ma facciamo un passo indietro: le spiagge bianche <===

 L’incontro con la Bice

        Correva l’anno 1274 allorché mi trovavo in cortile e giocavo a cincirimpolla con le figurine delle squadre del calcio fiorentino con Guido, sì Guido… il Cavalcanti, e avevo appena fatto il classico gesto ed esclamato: “Cincirimpolla quanto c’è nella polla?” che ti vidi apparire, sul cancello, una bimbetta.

Con un facile calcolo si noterà che all’epoca avevo nove anni e Guido (sempre il Cavalcanti) mi confidò che quella bimbetta si chiamava Beatrice, in seguito per tutti la Bice, e che era la figliola di quel Folco Portinari, agiatissimo banchiere oltre che fondato re dell’ospedale di Santa Maria Nuova. La Bice, stando a quanto mi confidò Guido, era nata nove mesi dopo di me, quindi grossomodo dal 21 di febbraio al 21 di marzo 1266, penserete voi. E avete proprio ragione!

Vedendomi distratto dall’avvenenza femminea, Guido rispose prontamente: “Otto” alla mia domanda di rito tuttavia io, incantato com’ero ad ammirare quegli occhi verdi e quelle treccine bionde, non me ne resi conto e fu così che egli, approfittando della mia distrazione, mi rubò tutte le figurine, compreso quella rarissima di Schnellinger, un giocatore oriundo dell’Allemagna che picchiava a destra e sinistra senza portare rispetto ad avversari e compagni.

Quella bimbetta scatenò tutto il testosterone che avevo in corpo accompagnato da una massiccia dose di tutti gli altri ormoni steroidei in circolo, tuttavia l’emozione fu di breve durata perché, quando scomparve nuovamente oltre quel cancello, io mi accorsi della malefatta di Guido, quella dei figurini, e lo riempii di puntate.

 Quando avevo da poco compiuto dodici anni, mio padre Alighiero stipulò un accordo per le mie nozze con un certo Ser Manetto Donati, a capo di una famiglia fiorentina piena di soldi, in cui mi si prometteva sua figlia Gemma. Andò a finire che mi ci fidanzai e, obtorto collo, la sposai per davvero nel 1285, all’incirca. Nel 1283, però, nove anni dopo il primo incontro (okkio al numero nove!), rieccotela la bella Bice, con un vestitino rosso strinto in vita da una cinturina dorata, al mercato di San Lorenzo.

“O come sarà bella, aggraziata, flessuosa!” Rimuginavo tra me, mentre passeggiavo a braccetto con la Gemma, mia vigente fidanzata instrumentum dotis.

A sentire la gente, compreso Guido, però, non è che la Bice fosse una gran bellezza, tuttavia evidentemente l’amore mi aveva fatto lo sgambetto facendomi invaghire di quei suoi occhi verdi, della sua pelle di madreperla e, come mi piaceva affermare, parlando di lei, sempre con Guido:

“…Di quel sorriso fresco, spontaneo, ingentilito da un leggero velo di tristezza”.

Insomma ero incardanato marcio e anche la Bice, a quanto pare, dimostrava di non essere da meno; infatti una volta che mi incrociò davanti a Palazzo Pitti, un salutino me lo aveva anche accennato sennonché io, per l’appunto, ero sottobraccio alla Gemma, a tutti gli effetti in procinto di diventare la signora Alighieri, per cui fui costretto a fare finta di nulla, per non insinuare in lei il tarlo della gelosia, e tirai di lungo. E la Bice? Con la coda dell’occhio la vidi che se ne andava dimenando i fianchi a culo strinto incazzata come una iena e da quel giorno, non mi salutò più.


O… non mi salutava più per davvero, eh! Neanche quando ero in giro da solo che so, al Piazzale Michelangelo, a Piazza della Signoria o al Duomo. Lo faceva a spregio: salutava tutti tranne me. Io la vedevo: buongiorno a destra, come va a sinistra… a tutti dava soddisfazione meno che  a me.

 E fu così che, all’ombra di quell’indifferente mancanza di considerazione, m’insospettii e le dedicai il famoso sonetto ABBA-ABBA-CDE-EDC che tutti cono
scete:
 

“Tanto gentil e tanto onesta pare”

(e sottolineo pare!)

Tanto gentil e tanto onesta pare

la donna mia quand’ella altrui saluta”,

scherza, ride, sostiene la battuta

anche ar telefonino cellulare.

 

E tanto è gavinosa quand’appare,

quella popò di ‘hioma riccioluta!

Ti pare ‘he dar celo sii viensuta

ne lo farebban l’omini l’artare.

 

Co’ be’ ragazzi certo un ci s’annoia,

coll’occhi se li magia e, per du’ ore,

li sdraia tutti gnudi nell’arcova:

 

anche ieri ciò visto ir Gigi, è nova!

Ma un sarà mìa… pe’ spéngisi ‘r bollore,

m’è doventata un gocciolino… troia?

 

N.d.a.:  in origine l’ultimo verso avrebbe dovuto terminare con “allegra”, ma non tornava la rima e così propesi per questa versione più, diciamo così, spontanea.

        È chiaro che quello fu un dannato sfogo dettato dall’impulso, perché ne ero innamorato da morire tanto che, durante la carriera di sommo Vate che il destino aveva in serbo per me, le ho dedicato poesie e prose facendomi, oltretutto, anche innumerevoli seghe mentali… oltre a quelle più concrete, diciamo così… artigianali.

Per esempio, in una delle mie più famose elucubrazioni  mi trovai ad elucubrare, per l’appunto, che il primo incontro con la Bice era avvenuto quando entrambi avevamo nove anni, a casa di mio padre; a diciotto ci eravamo rivisti per la strada e quasi salutati per la prima volta (diciotto uguale nove per due); io ero nato da nove mesi quando la Bice era venuta al mondo… sempre quel numero nove: non poteva essere una semplice coincidenza! Per farla breve, insomma, alla fine della fiera mi ero fissato che il nove fosse il nostro numero del destino.

E da lì, la rivelazione. Ma come avevo fatto a non pensarci prima: il nove è, in sé per sé, un numero Sacro perché contiene per tre volte la Trinità! Che la ricorrenza di quel numero fosse un sigillo di predestinazione?

 Questo sarà il filo conduttore di tutta la mia modesta produzione letteraria dedicata proprio alla Bice che comprende, oltre a sonetti, poesie, odi e serenate all’acqua di rose, l’opera per eccellenza, tutta scritta all’insegna di quel benedetto numero tre, il numero perfetto.

 E poi, che la Divina Commedia abbia insegnato l’italiano a tutta l’Italia non me lo sono di certo inventato io: io l’ho scritta e basta! Non mi si creda animato da cotanta presunzione. Ma ho saputo che perfino il Manzoni, secoli dopo, prima della stesura definitiva del suo capolavoro, I promessi sposi, è venuto, come disse lui, a sciacquare i panni in Arno, vale a dire che proprio nelle terre di Toscana gli dette le ultime rifiniture prima della pubblicazione. Per l’appunto, proprio il Manzoni, nell’agosto del 1827, prima della capatina in Valdarno, decise di trascorrere una quindicina di giorni al mare (quindi anche lui era fissato, come me, d’altronde) e prese alloggio presso la Locanda del Boboli proprio a Livorno (chi non ci crede si vada a cercare la lapide sul muro in Via Grande), ma di questo se ne tratterà in separata sede.

===> confessione

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